Il lignaggio femminile delle donne sarde
e la matrilinearità
Mi piacerebbe avere la certezza che un tempo in Sardegna ci fosse stato un matriarcato ma sarebbe azzardato a fronte delle diverse ricerche fare un’affermazione tanto affascinante.
Certo però della femminilità della Sardegna si potrebbe parlare a lungo, sia della sua terra con il suo archivio sconfinato di simbologie decisamente femminili, che per il suo popolo che ha conservato per essa una forma di ligio rispetto.
Questa devozione è ben narrata dal film di Paolo Zucca “L’uomo che comprò la luna” dove si vuole addestrare un giovane a ridivenire sardo. Quando quest’ultimo chiede al suo “maestro” come siano le donne sarde, questo gli risponde:
le sarde non sono donne, sono regine
Le sarde appaiono in pochi momenti ma possono muovere gli astri, alzare le maree, guarire le ferite e lo fanno con i loro movimenti poetici e il loro sguardo che contiene il tempo. Sono delle dee insomma, perfettamente connesse all’universo. Ma da dove arriva questa visione?
Se parlare di matriarcato in Sardegna forse è osare troppo, quel che è certo è che una matrifocalità ci fu e con essa il retaggio di una matrilinearità che apre le porte a molte riflessioni.
Matriarcato o matricentralità?
Il matriarcato in Sardegna come forma di potere è un argomento largamente dibattuto.
Tuttavia è scorretto definire in tali termini la struttura che ha accompagnato lo svolgersi della relazione uomo-donna in questa terra. È invece corretto parlare di società matrifocale.
La società matrifocale è un tipo di società che parte da presupposti differenti dal sistema matriarcale tout court e che regge interamente la sua forza sulla madre.
In questi modello il ruolo centrale è riposto non sulla donna ma, come sostenuto da Murgia, su una specifica funzione ad essa attribuita.
Quel ruolo ha lo scopo di reggere l’intera struttura. Questa dinamica, a dispetto del matriarcato, che può essere definito un ribaltamento di potere di genere rispetto al patriarcato, non comporta l’assunzione di potere da parte della donna come potrebbe accadere nel matriarcato. Il raggio di azione della madre infatti non la legittima a interferire o cambiare le regole che la circondano, né familiari né sociali.
I fili della società si reggono però interamente su di lei. Nel momento in cui essa si dovesse sottrarre o dovesse spostarsi dal ruolo di madre non solo “perderebbe il potere” ma il meccanismo sociale che la ingloba insorgerebbe contro di lei.
La matricentralitá a differenza del matriarcato dunque non è libertá o autodeterminazione della donna, non è potere, non è un cambiamento delle regole che governano il mondo. Certo però la matrifocalitá comporta un particolare rispetto, deferenza e considerazione di tale figura, centrale per il mantenimento dell’equilibrio sociale.
La Sardegna in toto è sicuramente una terra in cui la matrifocalità è esistita e ha avuto un grandissimo ruolo. Per quanto riguarda il matriarcato invece, se ne parla e se ne discute in certi termini esclusivamente per l’area barbaricina definendolo propriamente o impropriamente “matriarcato barbaricino“.
Il rispetto della donna sarda, origine di un sapere
Certamente per capire il ruolo delle donne in Sardegna è necessario comprendere appieno il culto della Dea madre. In un periodo compreso tra il 40 000 a. C. e il 1000 a.C la cultura prenuragica e nuragica ci lasciano in eredità un centinaio di statuette tutte accuratamente dormienti sotto la terra, tutte rappresentanti la Dea.
40000 anni fino all’ultima risalente all’anno 1000 è un tempo così lungo che lascia intendere quanto radicata dovesse essere tale venerazione e quanto di questa memoria sia rimasta nel profondo di questo popolo.
Di circa 130 statuette rivenute, tutte ad eccezione di cinque di forma maschile rappresentavano una dea. Le invasioni che seguirono mantennero comunque integra la sacralità del principio femminile che si protrasse ancora nelle epoche successive attraverso nuove dee.
Dove affondavano le loro radici se non in una cultura già raffinatamente femminile?
Templi furono dedicati alla dea Thanit, ad Astarte, a Diana, a Demetra. Persino la Madonna in Sardegna acquisì un suo tratto specifico.
Quando in Sardegna Dio era una donna si manifestava attraverso il culto della Grande Madre e per i sardi quella dea ha ancora un nome: è la Dea Madre. Quanto forte dovette essere radicato il culto della dea madre al punto di attraversare il tempo e le persecuzioni cristiane?
È impossibile comprendere il ruolo de sa femina sarda se non si capisce il ruolo profondo che il culto della dea madre ebbe per questo popolo.
E se un sapere antico fu trasmesso esso si conservò nella forma del profondo rispetto e deferenza che questo popolo conservò in seguito verso la donna stessa.
La sapienza delle janas e il loro ruolo
Il rispetto e l’austerità che la donna sarda incuteva le derivava da un ruolo arcaico di cui rimase forse depositaria come jana.
Jana, quella parola che nel folklore sardo significa fata (un po’ maga e un po’ strega) o che forse come affermato dal dizionario del Wagner sarebbe derivazione di Diana, dea che più di tutte incarnò il culto della dea madre sarda.
Ma quale sentimento doveva avere il popolo sardo quando gli si raccontava che erano state le Janas ad aver trasmesso il sapere della medicina, dell’intessitura, dell’oreficeria?
Quelle janas, note anche col nome di fadas o di virghines (vergini come fu la dea Diana e le sue sacerdotesse) nel folklore sardo erano fate, le cui case erano le celebri domus de janas, minuscole e straordinarie strutture scavate nella roccia sparse ovunque per la Sardegna.
Quanti bambini hanno sognato e immaginato queste fate, giocato con loro nelle campagne, nelle feste, entrando e uscendo di corsa dalle Domus?
Ma chi erano davvero le Janas? Erano delle fate o delle donne sapienti magari vergini come soprannominate in alcune zone? Era il nome di un popolo? Erano le figlie e i figli di una dea di nome Jana?
Chi lo sa! Certo i sardi risponderanno con ciò che sanno, erano fate che intessevano con telai d’oro. Io invece le sogno come donne sapienti e straordinarie, degne di tanta considerazione e rispetto da attraversare il tempo con il nome di fate.
La libertà della donna sarda
Come fu possibile che nel 1400 in Sardegna governasse una Giudicessa, che altro non fu se non una sovrana? O perché in una cittadina tanto arretrata come la Nùoro di fine ‘800, a una donna di nome Grazia Deledda fu concesso il lusso di studiare, arrivando a vincere l’ambito premio Nobel alla letteratura nel 1926?
O come fosse possibile che a inizio ‘900 una donna come Maria Lai proveniente da uno sperduto paesino di nome Ulassai realizzasse il sogno di diventare una grande artista, divenendo allieva del grande Arturo Martini nel pieno della seconda guerra, e trasformandosi in un’icona unica nella storia dell’arte contemporanea?
Quando mai sarebbe stato possibile che a una donna in qualunque altro luogo d’Italia in quegli stessi anni venisse concesso di studiare o diventare una donna di potere?
Una società patriarcale in cui la donna era considerata un’inetta, un’inutilità, priva scientificamente di un cervello per ragionare, per studiare.
Qualcuno dovrà pur chiedersi prima o poi perché in una società patriarcale come quella, in Sardegna tutto questo invece si realizzò.
Il matriarcato barbaricino
La questione della matrifocalità e il dibattito sul matriarcato in Sardegna prende il via dalla regione centrale chiamata Barbagia. Il centro Sardegna vuoi per la sua forte identità conservativa che per il suo isolamento geografico conservò fino agli anni ’60 quelli che alcuni definiscono dei retaggi di matriarcato, rinominato appunto matriarcato barbaricino.
Riguardo all’ipotesi del matriarcato barbaricino subentrano due riflessioni.
La prima si chiede se tale matriarcato fosse esteso nella sola Barbagia o se fosse in tutta la Sardegna. La seconda si domanda se tale forma di matriarcato sia un retaggio arcaico di una società matrifocale postuma e giunta fino a noi o se invece si sia sviluppata autonomamente a seguito di quell’isolamento geografico.
Ad ogni modo è altamente probabile che il sapere di cui le donne sarde e barbaricine furono depositarie venisse trasmesso per via matrilineare al fine di trasmettere conoscenze e tradizioni che passarono di madre in figlia. Così accadde fino agli anni ’60.
Le trasmissioni matrilineari in Sardegna
Quando si discorre del matriarcato in Sardegna e del ruolo centrale che le feminas sardas avevano all’interno della famiglia si giustifica tale fatto con la transumanza. Durante la transumanza del bestiame infatti, gli uomini si allontanavano per lunghissimi periodi. Sebbene tale fatto sia un tratto tipico della società pastorale, alcuni studiosi fanno notare che tali dinamiche si riscontravano anche nelle famiglie dei contadini.
Durante un’intervista fatta alla studiosa Dolores Turchi, storica originaria di Oliena, questa racconta che nella società sarda l‘uomo non si interessava affatto della gestione della famiglia ma si limitava a lavorare e a produrre reddito.
Il potere della donna sarda barbaricina
Nella società sarda del centro Sardegna tutti e tre i poteri amministrativo, esecutivo e legislativo erano concentrati nelle mani delle madri. Ma non solo, esse gestivano anche le tradizioni familiari e la trasmissione dei saperi tradizionali, le feste del paese, i matrimoni e i funerali.
Il compito della gestione famigliare e del patrimonio erano esclusivamente operati dalle donne come anche la decisione di vendetta nelle faide.
Erano le donne che decidevano se era tempo di vendicare o no, se si doveva vendicare o lasciar perdere.
Quando si commerciava, si stabilivano i prezzi dei propri prodotti, si chiedevano prestiti o si facevano compravendite erano le donne che si occupavano delle trattative. E dopo lunghissime contrattazioni era uso che gli uomini si lasciassero dicendo Sento cosa dice mia moglie.
Un uomo che gestisse una trattativa senza la consultazione della moglie era considerato un incapace e visto di cattivo occhio.
La gerarchia femminile sarda
All’interno delle donne della famiglia c’era una precisa gerarchia femminile. Era la madre della sposa a dirigere tutto.
Nella casa materna restavano le sole figlie femmine con i loro consorti mentre i maschi si sarebbero fatti una propria casa. Finché era presente la madre era lei che decideva mentre le figlie femmine le offrivano consigli.
Straordinaria e breve testimonianza degli anni 50- “Sa mere so deo” ossia la padrona sono io.
Diversamente dal resto d’Europa in cui la donna era completamente esclusa dalle decisioni economiche e dalle trattative, nella società sarda si conservava tra l’uomo e la donna un rapporto paritario.
In forma più o meno esplicita era quasi sempre la donna a rappresentare la capofamiglia, vuoi per ragioni pratiche, vuoi per un ruolo forse ereditato dal passato.
“Di madre in figlio”: il matronimico
Un fatto interessante riguarda la questione patronimica/matronimica ossia la trasmissione del cognome. Alla luce di numerose ricerche tra i registri parrocchiali si è rilevato che a seconda dei paesi nel 1600 ci fossero due tipologie di trasmissione.
La prima era che le figlie femmine prendessero il cognome della madre mentre i maschi quello del padre creando due linee genealogiche parallele all’interno della stessa famiglia.
La seconda mostra altre aree in cui invece non vi erano propriamente regole fisse e in cui si dava indifferentemente il cognome della madre o del padre, sebbene emerga una dominanza dei cognomi materni.
Quando un continentale moriva, gli si poneva il cognome paterno proprio perché espressamente considerato di uso italico. Lo slittamento della scelta verso il patronimico è senza dubbio dovuto a un adattamento culturale successivo di origine non sarda.
Si può con certezza affermare che in Sardegna coesistettero a lungo sia il patronimico che il matronimico.
Non sorprende dunque che ancora oggi si usi chiedere ai bambini: Di che donna sei figlio? oppure si indichi un bambino spiegando: è il figlio della tale…
Le differenze tra figlie femmine e figli maschi
A differenza di altre aree d’Europa nel matriarcato barbaricino i figli maschi sono gli ultimi a sposarsi in quanto devono dare la precedenza alle loro sorelle. Gli uomini dunque si sposano in età molto avanzata. Mentre le donne convogliano a nozze intorno ai 18 anni, gli uomini non prima dei 30.
Questo perché il figlio maschio doveva aiutare le sorelle, e solo una volta che queste si fossero sistemate poteva sposarsi.
Le figlie femmine erano più colte. Fino agli anni 60 solo le bambine studiavano alla scuola elementare mentre i maschi erano spinti a lavorare con i padri e a collaborare nella produzione del reddito familiare. In generale si poteva dire che le bambine venissero trattate con più cura e rispetto.
Il lignaggio femminile attraverso le figlie femmine
Una questione molto curiosa è anche l’usanza presente fino agli anni 50 che vedeva l’uomo che si sposava andare ad abitare presso la casa della sposa.
Non erano le donne a lasciare la casa materna ma gli uomini. A differenza dell’uso italico dunque non era la donna ad andare via da casa ma l’uomo.
Quest’usanza sembrerebbe fosse voluta per perpetuare una specifica tradizione femminile trasmessa per via matrilineare. Nel mantenersi all’interno della famiglia le donne avrebbero infatti potuto proseguire agilmente la tradizione della madre e prenderne il posto una volta che questa fosse morta.
Le donne nella società sarda erano negli effetti le capofamiglia, pertanto si necessitava che fosse l’uomo a rinunciare alla sua famiglia d’origine e non viceversa.
Il matrimonio a sa sardisca (=alla sarda)
Altra peculiarità specifica vissuta dalle donne sarde erano le nozze che non si svolgevano alla pisana ma a sa sardisca discostandosi completamente dal diritto romano.
Nel matrimonio alla pisana non era possibile per la donna stipulare dei contratti per i propri beni nemmeno se lo avesse voluto lo sposo, cosa che era invece possibile per quello alla sarda che dava alla donna molta più libertà, le riconosceva il diritto di possedere beni propri e i medesimi diritti in fatto di compravendite ed eredità future.
La donna per sposarsi non doveva portare alcuna dote, entrambi gli sposi contribuivano in maniera paritaria alla nuova famiglia. E alla morte del marito la donna aveva pieno diritto ad ereditarne i beni.
Anche il matrimonio, primariamente pagano, era alquanto interessante nonché anticipatore del concetto di convivenza seppure in Sardegna avesse valore ben più importante del matrimonio religioso stesso.
Il matrimonio si svolgeva a casa della sposa dove l’uomo sarebbe andato poi a vivere. Dopo che si entrava a casa si svolgeva s’assicuronzu de su coju in cui si dava la parola di essere sposati. Una volta dada sa paraula il matrimonio era compiuto. Questo fa capire quanta importanza avesse per il popolo sardo il mantenere la parola data.
Svolto s’assicuronzu gli sposi erano uniti, potevano andare a vivere insieme e avere figli, così che spesso capitava che i propri figli assistessero al matrimonio religioso che poteva svolgersi anche molti anni dopo. Tale uso era così radicato che erano sufficienti piccoli atti di penitenza prima di svolgere il matrimonio cattolico tanti anni dopo.
Tradizioni matrilineari
La matrilinearità in Sardegna era finalizzata alla trasmissione di conoscenze femminili che passavano di madre in figlia.
Tale via di trasmissione continua ad essere oggetto di interesse in quanto disallineata dalla cultura presente incentrata sul ramo maschile.
Le majarzas, le vidermortos, le accabadoras, le levadoras, le deinas, le orassionarjas sono alcune delle pratiche e dei doni che venivano trasmessi alle figlie femmine. Anche alcuni uomini nella società sarda erano partecipi di tali doni, a dimostrazione di un rapporto col maschile tendenzialmente paritario.
Sotto molti profili la storia della Sardegna si discosta dalle altre nazioni poiché proprio grazie a quell’isolamento nel Mediterraneo che le fu condanna durante le piraterie e le dominazioni, le fu anche vantaggio nello sviluppare una sua struttura interna, con regole tutte singolari allineate alla sua storia, con la sua dea.
E se c’è una personalità che nel cuore dei sardi è ancora celebrata ed è rimasta simbolo delle cose belle, quella personalità è Eleonora D’Arborea.
Questa giudicessa incarna a mio avviso tutti i tratti della donna sarda. Nessuna più di essa, coraggiosa e saggia ci racconta di quanto il femminile in questa terra fu considerato, amato e rispettato.
[…]
Le sarde.Chi le ferma le donne sarde, cresciute sulle pareti di calcare tra il mare aperto e i cespugli di mirto?
Ci sarebbe da portarle sul continente, le donne sarde.
Ci sarebbe da rapirle come ci hanno insegnato a fare e da portarcele sul continente, che tanto c’entrano nel bagaglio a mano.
Bisognerebbe portarle in Europa per farle parlare con certe donnette di terraferma, intrappolate nella rete a maglie fini dell’apparenza, dell’inconsistenza.
Io alle donne sarde farei produrre un tutorial, uno di quei corsi col cd-rom allegato che insegni alle ragazzine a starsene con la faccia contro il vento, come si protegge un territorio, come si danza con le proprie tradizioni senza annoiare platee, senza il vestito buono, senza soldi.
Io le sarde le farei entrare nei libri di scuola, nelle tasche dei politici, nei negozi e nelle università a spiegare cos’è il carisma.
A spiegare cos’è la dignità a quei catorci con la permanente e gli sciatusc che credono basti un figlio e un paio d’ore dall’estetista per essere donne.
Che non sanno cosa diventa il mare quando incontra il vento, che non riconoscono più odori e profumi che le loro antenate un tempo, fiutavano da miglia e miglia e che solo le sarde riescono ancora a percepire.
Dio salvi le donne delle isole e le cose che appartengono a pochi.
“Circa le donne di mare” di Arianna Porcelli Safonov
Bibliografia
Libri:
Acciaro Maria Pitzalis, In nome della madre, ipotesi sul matriarcato barbaricino, Feltrinelli, 1978
Turchi Dolores, Lo sciamanesimo in Sardegna, Newton and Company Edition, Roma, 2001
Wagner Leopold, La lingua sarda: storia spirito e forma , 1951. Berna: A. Francke
Zedda Claudia, Creature fantastiche in Sardegna, Cagliari, 2008
articoli:
Di madre in figlio, nel cognome della donna, La nuova Sardegna, 2004 articolo
Giannetta Murru Corriga, Di madre in figlia, di padre in figlio. Un caso di discendenza parallela in Sardegna, La ricerca Folklorica, n. 27, pg. 53-73, articolo
Elisabetta Siotto, Matriarcato sardo, occulto, sottile, reale,2013, comunedicagliarinews.it articolo
Fiocchetto Rosanna, Viaggio nella Sardegna matriarcale: dee, deinas, janas, fadas, donni di fuora, università delle donne, Link
Robert Roland Jr., Matronimici e altre singolarità nella Sardegna Medioevale, traduzione da: Beiträge zur Namenforschun, n.F.16, 1981, pg. 444-450, Articolo
Roberto Pilleri, La donna e le sue relazioni sociali nei testi giuridici medioevali, la carta de logu di Eleonora d’Arborea, 2011, Link
Sardegna matriarcale, contosu, 2006 link
Claudia Zedda, Il matrimonio in Sardegna, 2011, mediterraneaonline.it link
Maria Teresa Petrini, La condizione femminile nella società nuragica,2018, nurnet.net, Link
Video:
Video intervista a Dolores Turchi, Sardegna, tradizioni e cultura, parte I e II:
https://www.youtube.com/watch?v=MHWFEYKeOh8 –
https://www.youtube.com/watch?v=GQAUwNvXC90
Foto domus de janas Prunittu da aldo bnb (Arzachena) video: https://www.youtube.com/watch?v=1tfjmHWvRzM
9 Commenti
Bellissimo articolo!!!!!
Grazie per l’articolo e per le note a fine articolo!
Grazie a te per il tuo lavoro, le note erano più che doverose!
Bellissimo e veritiero…sono ogliastrina e sono cresciuta con le tzie mannas o sciamane
Bellissimo articolo, veramente esaustivo
SA FEMINA SALDA ESTE ISTELLA E CHELU E FIMMAMENTU UNICA SOVRANA
un lavoro splendido
complimenti e grazie, era proprio quello che cercavo
Una narrazione storica di elevato spessore culturale.